Nel mondo del lavoro, soprattutto nel pubblico impiego, la trasparenza e la correttezza nella fase di assunzione sono requisiti fondamentali. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, che ho esaminato attentamente, offre uno spunto di riflessione cruciale su quanto possano essere gravi le conseguenze di una dichiarazione non veritiera resa al momento della stipula del contratto.
Il caso: incompatibilità o dichiarazione mendace?
La vicenda riguarda una docente che, al momento di essere assunta a tempo indeterminato da un'università pubblica a seguito di una procedura di stabilizzazione , aveva dichiarato espressamente di non avere altri rapporti di impiego, pubblici o privati.
In realtà, la lavoratrice era già docente di ruolo, sebbene in regime di part-time, presso un'altra amministrazione pubblica scolastica. Una volta scoperta la situazione, l'università ha avviato un procedimento disciplinare che si è concluso con il licenziamento per giusta causa senza preavviso.
La questione è arrivata fino alla Corte di Cassazione, dopo che sia il Tribunale in primo grado sia la Corte d'Appello avevano confermato la legittimità del licenziamento.
La difesa della lavoratrice e la decisione della corte
La lavoratrice ha tentato di difendersi sostenendo che, in realtà, non sussisteva una vera e propria incompatibilità tra i due impieghi pubblici, dato che uno dei due era un part-time con un orario di lavoro molto ridotto. Secondo la sua tesi, il licenziamento era quindi sproporzionato.
Tuttavia, la Corte di Cassazione, confermando le decisioni dei giudici di merito, ha spostato il focus della questione. I giudici hanno chiarito che il punto centrale non era tanto la compatibilità o meno tra i due impieghi, quanto la dichiarazione deliberatamente falsa resa dalla docente al momento dell'assunzione.
La Corte ha ritenuto "dirimente" il fatto che la lavoratrice avesse intenzionalmente nascosto il suo precedente rapporto di lavoro, sottoscrivendo una dichiarazione sostitutiva di certificazione in cui affermava di "non prestare servizio presso altre amministrazioni pubbliche". Questo comportamento è stato giudicato di una gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, giustificando così la massima sanzione espulsiva, ovvero il licenziamento.
Secondo la Corte, questa "infedele dichiarazione" ha permesso alla docente di beneficiare di una procedura di stabilizzazione destinata ai soli lavoratori precari, alterando i presupposti stessi dell'assunzione.
Cosa ci insegna questa sentenza?
Questa pronuncia ribadisce un principio fondamentale: la lealtà e la buona fede sono pilastri del rapporto di lavoro, a partire dalla sua costituzione. Mentire nel proprio curriculum o, come in questo caso, in una dichiarazione formale al momento dell'assunzione, non è una leggerezza, ma un inadempimento grave.
Il datore di lavoro, specialmente se pubblico, deve poter fare pieno affidamento sulle dichiarazioni del proprio dipendente. La falsità dichiarativa, a prescindere dalle sue conseguenze concrete (come l'effettiva incompatibilità), mina alla base questo rapporto fiduciario e può, come dimostra questo caso, giustificare un licenziamento per giusta causa.
Per chi si appresta a firmare un contratto di lavoro, il messaggio è chiaro: la sincerità è sempre la scelta migliore e più sicura. Per le amministrazioni, è una conferma della possibilità di adottare misure severe di fronte a comportamenti che ne pregiudicano la trasparenza e il buon andamento.